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Incontro e conoscenza

Le neuroscienze data-driven dalla meditazione Buddhista e dalla mindfulness si sono guadagnate enorme popolarità di recente. Eppure, il potenziale trasformativo dell’uomo offerto dal Buddhismo, sotto lo scanner fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) — delimitato come ‘oggetto’ di studio — può diventare sterile, inanimato e inerte quando viene dislocato dalle sue dimensioni performative, costitutive del suo significato.
MSA incontro conoscenza

di Carlo Carnevale
Le neuroscienze data-driven dalla meditazione Buddhista e dalla mindfulness si sono guadagnate enorme popolarità di recente. Eppure, il potenziale trasformativo dell’uomo offerto dal Buddhismo, sotto lo scanner fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) — delimitato come ‘oggetto’ di studio — può diventare sterile, inanimato e inerte quando viene dislocato dalle sue dimensioni performative, costitutive del suo significato. Questa disgiunzione, lo vediamo spesso, pone un’enorme sfida preliminare se si vuole perseguire un dialogo tra scienza e Buddhismo filosoficamente fondato, e vale dunque la pena rifletterci.

Questi orientamenti discordanti di scienza e Buddhismo riflettono ciò che Freya Mathews, una filosofa ambientale australiana, descrive come la differenza tra conoscenza e incontro. Un incontro è una relazione bilaterale tra soggettività, in contrasto con la conoscenza come il prodotto dell’orientamento oggettivo della scienza: “Incontrare [to encounter] l’altro è approcciarlo come un altro soggetto con cui sia possibile avere un rapporto … e da cui sia possibile elicitare una risposta” (Mathews 2003, 77). Rimaneggiando la relazione del conoscitore-conosciuto da soggetto-oggetto a soggetto-soggetto, Mathews (2003, 78) spiega che “la conoscenza cerca di scoperchiare il mistero della natura dell’altro; gli incontri lasciano il mistero intatto … La conoscenza elabora il lutto [provides closure] del futuro e quindi offre controllo e sicurezza. L’incontro è open-ended e quindi offre spontaneità e vulnerabilità.”

Un altro filosofo ambientale, Jim Cheney, ha fatto notare una simile disparità tra le forme moderne di conoscenza e gli incontri personali: “Le concezioni moderne della conoscenza … ritengono che questa emerga (necessariamente) da un rapporto tra un soggetto conoscente attivo e un oggetto conosciuto passivo” (Cheney 1999, 142)
Nelle sue riflessioni sullo studio dei Nativi Americani da parte dei bianchi, Cheney associa questa distinzione a una differenza tra un mondo irriducibilmente performativo e delle credenze descrittive o oggetti di conoscenza. Qualifica inoltre questa differenza come differenza tra: “oggetti di conoscenza o credenza … e … uno stile di condotta, che in qualche senso porta alla luce un mondo” (Cheney 1999, 149-150). Il ritratto di Cheney di una dimensione irriducibilmente performativa che mal si adatta a un semplice resoconto descrittivo trae molto dal lavoro di Sam Gill, che ha mostrato questa disgiunzione con l’esempio della preghiera Navajo: a domande su cosa significhi la preghiera, gli informatori nativi rispondono sempre: “non si tratta di che messaggio porti la preghiera, ma di cosa la preghiera fa”. Questa situazione ci ricorda da vicino il coinvolgimento degli scienziati con le pratiche buddhiste; Gill mostra le limitazioni degli approcci teorici alle performance religiose dei nativi americani, sottolineando che “i sapienti della tradizione Navajo ritengono che [“la teologia, la filosofia, la dottrina”] siano ordinariamente scoraggiate. Tali preoccupazioni sono comunemente comprese dai Navajos come prova che si fraintenda la natura delle tradizioni religione Navajo.” (Gill, “One, Two, Three: The Interpretation of Religious Action”, citato da Cheney 1999, 148). Per quanto riguarda la scienza delle pratiche contemplative buddhiste tibetane, almeno nel suo stato attuale, c’è da chiedersi se il posto dedicato alla scienza non rifletta uno stato di colonizzazione della conoscenza indigena.

La supposizione moderna che le idee neutrali, disinteressate o statiche, siano le uniche verità reali è ciò che Donald Evans (1992) ha chiamato il dogma dell’impersonalismo. Evans caratterizza l’impersonalismo come “il rifiuto dogmatico di ogni presa di posizione che richieda trasformazione personale [personal transformation] per essere adeguatamente compresa e valutata” (Evans 1992, 101).

“L’impersonalismo è forse più profondamente scalzato quando consideriamo la questione: ‘esiste l’amore incondizionato?’ Mi sembra chiaro che io non possa riconoscere l’amore incondizionato … a meno che io non ne abbia avuto esperienza personale, per quanto effimera, come ricevitore o emettitore [as a recipient or as a channel].” (Evans 1992, 107)

In effetti, fatti impersonali, ‘disinteressati’, non sono mai realmente separati dagli interessi e dai valori personali. Un’implicazione di questo è che non vi sia reale dualismo epistemologico tra fatti e valori, e questo vale tanto per la scienza che per il Buddhismo. In altre parole, i discorsi della scienza riflettono valori socialmente costituiti all’interno di quella cultura in cui i discorsi scientifici sono integrati, oltre ai sistemi finanziari e istituzionali che consentono e validano la pratica scientifica. La stessa affermazione che il valore della scienza sia “conoscenza per la conoscenza” esemplifica un valore incorporato con gli interessi personali di una comunità. Dunque, nonostante l’ideale di verità oggettiva e impersonale, nemmeno la scienza possiede uno sguardo da nessun luogo.

Se è l’ambiente del laboratorio a consentire agli scienziati di confermare e rifinire teorie, o di rifiutare modelli non più adatti, allora il laboratorio per una scienza del Buddhismo è discutibilmente ancora vacante. Ad esempio, la verità della sofferenza, punto di partenza buddhista in quanto prima nobile verità, richiede per lo scienziato un sentire la sofferenza, per poter essere valutata adeguatamente; eppure questo requisito trascende lo sguardo impersonale e disinteressato associato all’ideale metodologico scientifico. Il ruolo centrale della conoscenza personale — incarnata, attiva, vivente — non può che porsi in contrasto all’ideale moderno di conoscenza distaccata. Per i buddhisti, una conoscenza trasformativa (o incontro) è il tipo più importante di conoscenza.

Eppure generalmente gli scienziati non sono interessati all’incontro e alla sua natura trasformativa, ma alla conoscenza. Ed è importante tenere a mente che la ricerca scientifica dei correlati fisiologici degli stati cognitivi nei meditatori buddhisti, ad esempio, è guidata dagli scienziati occidentali con le assunzioni, i metodi e gli obiettivi degli scienziati.
Dove questa conversazione comparativa possa condurci non è semplice da dire, ma ci sembra evidente che un dialogo possa essere più significativo e onesto se non è semplicemente composto da due monologhi, ma procede in modo tale da far risuonare entrambe le voci in campo, e lasciando tutti i partecipanti aperti al potenziale trasformativo dell’incontro.

Fonti & Approfondimenti:
J. Cheney, 1999, “The Journey Home.” In An Invitation to Environmental Philosophy, Oxford University Press.
F. Mathews, 2003, “For the Love of Matter: A Contemporary Panpsychism”, SUNY Press
D. Evans, 1992, “Spirituality and Human Nature”, SUNY Press.

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