di Carlo Carnevale
L’idea dei neuroni come unità operativa bioelettrica fondamentale del cervello è ormai da inquadrare in un contesto più ampio; la ricerca neurobiologica recente sta gradualmente ricollocando questa idea classica della neurologia in una prospettiva relazionale.
Il profilo bioelettrico del cervello è costruito su codificazioni di scala inferiore come le interazioni allosteriche tra proteine; meccanismi neurobiologici che causano la trasformazione delle proteine, mediante molecole effettrici con cui interagiscono.
Gli ecosistemi consistono di gruppi composti da organismi, a loro volta costituiti da organi che sono aggregati di tessuti, che consistono di cellule attive in networks biochimici, capaci di codificare informazioni (Shannon, 1948) su più livelli annidati.
Ogni sottounità è di per sé complessa e competente nel suo contesto nativo e ogni unità superiore resiste alla riduzione a quella sottostante.
Troviamo comportamento flessibile e adattivo già a partire dai livelli più bassi. Le singole cellule ad esempio sono agenti compositi che esibiscono modellazioni comportamentali molto ricche, che possono essere frammentate in ulteriori sub-unità autonome (alcuni esempi sono la dinamica del citoscheletro e vari sottosistemi di network proteici).
Molte delle attività già presenti a livello cellulare sono osservate nel controllo fisiologico di organismi complessi; alcuni esempi notevoli sono la differenziazione, la plasticità, la morte programmata della cellula, la rigenerazione e meccanismi “neurali” in grado di codificare informazione.
È stato studiato come lieviti e batteri unicellulari possiedano la capacità di computare e predire eventi futuri sfruttando strutture inferite da esperienze precedenti. La memoria, o le capacità di integrare informazioni spazio-temporali e perseguire scenari specifici tramite l’attuazione di diversi comportamenti possibili, non sono capacità esclusive ai sistemi nervosi e sembrano anzi essersi evolute precedentemente.
Raggrupparsi consente alle cellule di condividere informazione e accedere a una memoria comune integrata (come illustrato dall’esempio popolare delle slime molds); questa struttura di informazione condivisa si estende fino ai margini del collettivo, che vincola molte unità sub-agenti competenti in un individuo coerente unificato, le cui unità costitutive – bambole di una matrioska– partecipano tutte a una comune goal-directedness.
Questi principi verosimilmente si mantengono su scale diverse: dalle cellule nei tessuti fino a gruppi di organismi complessi come api e termiti. Nei casi di fenomeni neoplastici e colonie di insetti sociali, ad esempio, le dinamiche di rottura del coordinamento sembrano mostrare importanti sovrapposizioni.
Alcuni autori arrivano a proporre una cognizione fuori-scala (Scale-Free Cognition) ridefinendo la centralità concettuale dei margini tra un organismo individuale e le sue sotto unità costitutive.
Questi margini, da una prospettiva biologica, risultano malleabili e possono transitare in diverse scale spaziali e temporali; le dinamiche di segnalazione tra animali in un ecosistema, a un livello fondamentale, risultano essenzialmente analoghe alla segnalazione bioelettrica del cervello – entrambi sono esempi di informazione che si propaga in una rete di micro-agenti localmente competenti.
Michael Levin fa notare come questi multipli livelli di approccio ai sistemi viventi siano “a priori equamente validi, senza che i livelli inferiori (molecolari)”, “dove tutto appare come un meccanismo, detengano un privilegio unico.” (Levin, 2019)
Naturalmente queste capacità, tratti funzionali e organizzazioni cibernetiche sono compatibili con diverse teorie della coscienza e nulla di tutto ciò risponde esplicitamente al cosiddetto problema difficile (hard problem); vale a dire, in nuce, come mai specifiche caratteristiche funzionali diano origine all’esperienza in prima persona. Ma, posto che alcuni sistemi nervosi sembrano connessi a questo tipo di esperienza e che le differenze tra le reti neurali e non-neurali (oltre alla scala temporale) sembrano essere minime, potrebbe forse risultare naturale immaginare come ci si senta a essere un organo o una cellula e compiere delle “scelte” orientate all’omeostasi.
Del resto, il profilo bioelettrico del diabete è già stato modellizzato come disturbo cognitivo.
In conclusione all’articolo, Levin osserva quella che lui definisce “un’intersezione” tra il modello computazionale dei confini dell’individuo da lui proposto e certe “visioni orientali della coscienza”. In particolare, facendo riferimento al Buddhismo Zen, Levin nota:
“Non mi è chiaro se sia benefico (o perfino possibile) vivere nel presente e lasciare andare i ricordi del passato e le aspettative nei confronti del futuro, ma chiunque abbia successo nel farlo raggiungerebbe esattamente quello che promette lo Zen: la dissoluzione del sé.
Secondo il modello proposto, le idee dello Zen sulla soppressione del desiderio (attività goal-directed, preferenza per uno specifico stato delle cose) sono corrette in quanto questa (la soppressione del desiderio) porterebbe a una dissoluzione del sé.” (Levin, 2019, traduzione dell’autore)
Fonti & Approfondimenti:
J. R. Gregg, 1959, “On Deciding Whether Protistans are Cells”.
M. Levin, 2019, “The Computational Boundary of a “Self”: Developmental Bioelectricity Drives Multicellularity and Scale-Free Cognition”.
D. Vogel; A. Dussutour, 2016, “Direct transfer of learned behavior via cell fusion in non-neural organisms”.
J. Smythies, 2015, “On the possible role of protein vibrations in information processing in the brain: three Russian dolls”.