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In primo piano giugno 2024

“Realizzazione mistica come poesia” del Rev. Carlo Tetsugen Serra

A mio sentire forse possiamo paragonare la poesia alla realizzazione mistica e la prosa alla meditazione. Due lati della stessa medaglia tutti e due praticabili e con valori interdipendenti, diversamente si sottrarrebbero alla visione buddhista (...) dell’interdipendenza, e non di meno a quella di causa ed effetto.
MSA Tetsugen Serra misticismo e meditazione
a deatil of Keinen shūgajō Pl.44 (1906), Imao Keinen (Japanese, 1845 – 1924), artvee.com

All’interno dello Zen ci sono differenti visioni a seconda delle scuole e tradizioni per l’uso della parola meditazione e della sua pratica così per cosa si intende con la parola misticismo in ambito zen. Questa pluralità di visione e di sue pratiche corrispondenti è la ricchezza del buddhismo e il motivo per cui dovremmo sempre più chiamare il buddhismo: buddhismi.
Lo Zen ha una visione di meditazione e misticismo come: “pratica e realizzazione” che per lo Zen sono Uno, in una visione “mistica realista”.

Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera incomprensibile.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta.

(Rainer Maria Rilke – da Lettera ad un giovane poeta)

Questa bellissima poesia nelle parole “Forse ti sarà dato” allude forse che non è la mente, come comunemente la intendiamo, che troverà le risposte? “Ciò che è irrisolto nel tuo cuore” per i buddhisti è forse la Natura di Buddha espressione che nello Zen tenta di avvicinarsi alla parola Satori o “Natura Originaria” creando ancora più confusione nei praticanti che pensano ci sia una natura “Originaria” fissa che sottende a tutto, e una natura dell’essere e dell’universo non originaria, creando una discriminazione non favorevole al vivere/essere Natura Originaria.
La poesia è una realizzazione, non una comprensione della mente, per questo c’è la prosa, che in molte scuole buddhiste equivale all’insegnamento.
Il poeta con la poesia espressa in parole, sospensioni e silenzi utilizza un linguaggio poetico sfrutta parole che evocano sentimenti, emozioni e immagini indirizzando loro un significato, e liberandoci in profondità dalla visione ordinaria soggettiva. La poesia non è per la mente “abitudinaria, razionale e relativa” ma per quel “qualcosa” che va oltre la parola stessa.
Dal canto suo la prosa è il linguaggio abituale di comunicazione e informazione: c’è la prosa letteraria, narrativa; con allusione ai valori stilistici, sociali e morali: c’è quella limpida, curata, forbita, elegante, fiorita e anche ampollosa come in certi insegnamenti buddhisti o dei maestri. Possiamo dire che gli insegnamenti essenziali del Buddha (certamente dovremmo definire quali si considerano essenziali) sono per lo Zen da considerarsi “poesia” anche se non manca la prosa cioè quello che possiamo paragonare gli insegnamenti come comunemente si intende la parola “insegnare”.
A mio sentire forse possiamo paragonare la poesia alla realizzazione mistica e la prosa alla meditazione. Due lati della stessa medaglia tutti e due praticabili e con valori interdipendenti, diversamente si sottrarrebbero alla visione buddhista, ma ormai di gran parte della conoscenza occidentale scientifica dell’interdipendenza, e non di meno a quella di causa ed effetto.
Per questo il maestro Dōgen trai più importanti maestri fondatori, o meglio dire rinnovatori dello Zen, viene chiamato “mistico realista”, ovvero è stato capace, come forse dovrebbero fare tutti i praticanti buddhisti, di vivere in modo totalizzante “sacro” la vita nella sua interezza, che noi dividiamo in relativa e assoluta, al di là degli opposti discriminanti. La poesia dell’illuminazione vissuta nella prosa della vita “ordinaria” e naturalmente nei contenuti degli insegnamenti buddhisti.

Poiché la mente è libera –
ascoltando la pioggia
che cade dalla grondaia
le gocce divengono
tutt’uno con me.

(Dōgen)

Se nel Buddhismo la mente è considera qualcosa di più ampio e irriducibile della mente comune prodotta dalla dimensione del cervello con tutte le sue conosciute o sconosciute potenzialità, così come gli stati di coscienza realizzati per lo zen non sono definibili sulla somma della conoscenza della mente, ne dovrebbe conseguire che l’esperienza dell’illuminazione del Satori non è esperibile dalla mente o dalla coscienza comunemente ordinaria ne dalla meditazione che usa la mente.
Per quanto riguarda la pratica scientifica, la coscienza è ancora considerata, nella migliore delle ipotesi, come un epifenomeno. Allo stesso modo, se avessimo una scienza della coscienza, i dati biochimici, fisiologici e comportamentali potrebbero sembrare epifenomeni, perché non abbiamo nemmeno un sentore di come i fenomeni fisici siano legati all’attività “soggettivamente” manifestata della coscienza. Ma allora la meditazione che si rivolge comunemente alla mente ordinaria può far fare a questa un passo dal palo alto cento piedi, come si dice nello zen? O la pratica deve essere una pratica dell’ “oltre” quindi una pratica mistica oltre mente? Che poi successivamente viene vissuta dalla mente.

Shizuka sa ya
iwa ni shimi iru
semi no koe

Il silenzio
penetra nella roccia
un canto di cicale

(Basho)

Nel corso dei secoli, le esperienze mistiche, sia sotto forma di estasi che di illuminazioni, sono state una caratteristica importante della vita dei numerosi monasteri buddhisti in Oriente. Ma se si definisce il misticismo come viene spesso definito, come l’esperienza dell’unione dell’anima con un Dio, allora chiaramente lo zen e il buddhismo in generale non sono mistici. Eppure in altri modi lo Zen sembra profondamente mistico – più autocoscientemente mistico di altre religioni. Il buddhismo zen pone al suo centro una disciplina contemplativa attentamente calibrata ed esigente: lo zazen che non è meditazione, anche se viene usata comunemente questa parola per questa non-pratica.
Lo Zen concentra i migliori sforzi della sua pratica sulla ricerca di un’improvvisa esperienza di risveglio non sulla pulizia della mente.

Il corpo è l’albero del Bodhi
La mente è uno specchio luminoso
Mantienilo pulito ogni giorno con diligenza
Così che la polvere non vi si appoggi sopra
Visione comune espressa dal maestro

Shen-hsiu (605-706)

 

Fin dall’inizio non c’è alcun albero del Bodhi
Né mai ci fu alcun specchio luminoso
La Buddha-natura è sempre pura e chiara
Dove mai potrà attaccarsi la polvere?

Hui-neng (638-713)

Lo stesso maestro Chuang-Tzu aveva detto, “Se lo specchio è davvero brillante, la polvere non può aderire su di esso. Se la polvere può aderire ad esso, come si può dire che sia brillante?”. La pulizia dello specchio fatta ogni giorno suggerisce la gradualità; la risposta tagliente di Hui-Neng suggerisce un risveglio improvviso visione dello Zen.
Quello che accade è il risveglio, è una svolta sconvolgente che altera la vita. Offre un modo completamente nuovo di vedere, pensare, sentire, agire e essere per la nostra mente che da ordinaria diviene parte dell’assoluta o Uno con essa.
Possiamo dire, senza attaccarsi alle definizioni, ma prendendo solo in prestito le parole per fare “prosa” e non “poesia” che per lo Zen meditazione e esperienza mistica sono due pratiche della mente differenti sino a quando non accade il Risveglio/l’Illuminazione, poi sono una dentro l’altra. Questo è quando il maestro Dōgen definisce “La pratica è essa stessa illuminazione”, non c’è divisione.

La tradizione Chan/Zen solitamente non si riferisce a gradini o stadi meditativi. Il suo insegnamento centrale è che siamo intrinsecamente già “svegli”; la nostra mente è originariamente senza dimora, fissazioni e vessazioni, e la sua natura è senza divisioni e stadi. Questa è la base della visione Chan/Zen dell’illuminazione improvvisa. Se la natura della nostra mente non fosse già libera, ciò implicherebbe che potremmo diventare illuminati solo dopo aver praticato, per esempio la meditazione, il che non è così per lo Zen. Per questo nello zen sia la pratica di zazen che quella dei koan, le domande paradosso, non sono considerate meditazioni nel termine classico ma sono esse stesse l’esperire della Buddhità come si dice nel Buddhismo. Ma se vogliamo mantenere il termine meditazione e esperienza mistica, come realizzazione dell’”oltre” all’ordinarietà della mente, allora possiamo dire che nello Zen meditazione ed esperienza mistica sono uno inscindibile nel qui e ora e non sono un processo di pulizia o crescita della mente. Certa-mente in questa realizzazione mistica-realista c’è come detto prima una trasformazione di quella mente relativa che non è più relativa ma l’espressione qui e ora della realizzazione.
Considera una stanza che è naturalmente spaziosa. Qualunque sia l’organizzazione dell’arredamento della stanza non ne verrà compromessa l’intrinseca spaziosità. Possiamo costruire muri per dividere la stanza, ma sono temporanei. E sia che lasciamo la stanza pulita e ordinata o disordinata (mente relativa), ciò non influenzerà la sua naturale spaziosità. Anche la mente è intrinsecamente spaziosa. Anche se possiamo rimanere intrappolati nei nostri desideri e nelle nostre avversioni, la nostra vera natura non è influenzata da quelle vessazioni. Siamo intrinsecamente liberi.

Nella tradizione Zen, quindi, la pratica meditativa non mira a produrre l’illuminazione perché è già presente lo sforzo è inverarla, rendercene consapevoli. Potremmo chiederci: “Allora cosa ci faccio qui seduto in zazen o perché pratico i koan?” Certamente la pratica aiuta a ripulire i “mobili” nella “stanza” ma non la stanza già per sua natura splendente. Non attaccandoti ai tuoi pensieri di realizzazione o progresso spirituale, risistemi i mobili, e invece di fissarti sulle sedie, sui tavoli e così via, ne vedi la spaziosità. Quindi puoi lasciare che i mobili siano come siano o riorganizzarli nel modo che preferisci, non per te stesso, ma a beneficio degli altri nella stanza. Per lo Zen praticando in questo modo, la nostra vita diventa gradualmente completamente integrata con la mente ordinaria ma ricca di saggezza e compassione, e anche le tracce dell’”illuminazione” svaniscono. Sappiamo offrirci a tutti, come un faro, aiutando tutti coloro che si incontrano, rispondendo ai loro bisogni senza artifici perché siamo “mente ordinaria realizzata” siamo mistici realisti.

Furu ike ya
kawazu tobi komu
mizo no oto

Vecchio stagno
una rana si tuffa
un rumore d’acqua

(Basho)

La pratica è molto più che seguire un metodo particolare o attraversare le fasi di un percorso. La pratica è la vita e tutto il suo “arredamento”. La pratica ci aiuta a vedere la stanza e non ad attaccarci ai mobili. L’illuminazione non è qualcosa di speciale: è la libertà naturale di questo momento, qui e ora, non macchiata dalle nostre invenzioni.
Il maestro Zen Huineng, ad esempio, descriveva lo zazen come “vedere chiaramente la propria natura originale dentro di sé”.
La pratica della meditazione per lo zen consiste nel renderci attenti. Ci aiuta a riconoscere ciò che ci impedisce di essere recuperati, e quindi ci fornisce il metodo per decostruire l’ostacolo.
Contrariamente a quanto comunemente si intende, zazen non è una pratica mentale. Non è solo una cosa che fai con la mente, anche se quello che stai facendo è partecipare o concentrarti. Include la mente ma non si limita ad essa. Nel buddhismo in generale le persone tendono a identificarsi con ciò che nasce e accade nella loro mente e a sviluppare stati mentali “positivi”, ma lo zazen non si preoccupa eccessivamente di queste cose. Piuttosto, zazen è semplicemente sedere in presenza per respirare, sedere in presenza per la mente, sedere in presenza per il corpo nel risveglio della mente di Buddha che è ognuno di noi e allora vivrai tutti gli stati di coscienza positivi per aiutar tutti gli esseri, perché libero dall’idea di un io. Come scrisse il maestro Dōgen Zenji, nello Shobogenzo: “Yuibutsu-yobutsu (“Solo Buddha e Buddha”), L’intero universo è il corpo del Dharma del sé”.

Le pratiche che emergono dal Chan e dallo Zen articolano una comprensione stimolata non da una profonda visione della natura della verità ultima, ma piuttosto da un nuovo rapporto con gli oggetti ordinari della nostra vita quotidiana. Pulire un giardino, tagliare la legna, gustare una tazza di tè si trasforma da ordinario in esperienza mistica della nostra ordinarietà. Quando mangiamo, o quando laviamo la tazza dopo aver preso una tazza di caffè, o mentre guardiamo il lampione in strada possiamo mettere in pratica queste attività della vita ordinaria realizzata. Sono occasioni concrete per confrontarsi con gli accadimenti considerati da tutti “relativi” ma che divengono realizzazione, per viverli sotto una luce completamente diversa, non è meditazione è esperienza diretta di totalità. Talità/ Tathātā. Essere totalmente sé stessi inveranti il Buddha presente.

“Prima dell’illuminazione tagliavo legna e portavo l’acqua…
dopo l’illuminazione taglio legna e porto l’acqua!”

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