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In primo piano giugno 2024

“La mistica cristiana alla luce del Satipattanasutta – Il caso del “nulla” di San Giovanni della Croce” di Claudio Colaiacomo

Sia il "nulla" di Giovanni della Croce che la vacuità buddhista implicano un distacco dagli attaccamenti materiali e psicologici. In entrambi i casi, il distacco è un mezzo per raggiungere la comprensione più profonda della realtà.
MSA Giovanni della Croce satipattanasutta
a detail of Esquisse pour tissu ou Projet pour un fauteuil (1943), Wassily Kandinsky (Russian, 1866 - 1944), artvee.com

Non è facile leggere Giovanni della Croce, il suo stile diretto e asciutto è annoverato tra le letture complesse della mistica cristiana. Per chi conosce la letteratura buddhista invece, i testi giovanniani risuonano in qualche modo familiari se non altro per lo stile analitico e per il sorprendente riferimento a un termine che lui chiama nulla. Al lettore buddhista il termine non passa inosservato. Non soltanto per l’affinità con la parola vacuità ma per una serie di elementi davvero interessanti. C’è da premettere che in nessun modo intendo cimentarmi in un approccio integrativo delle due filosofie, non solo per la complessità ma soprattutto perché non lo ritengo utile e tantomeno necessario. La filosofia di Giovanni Della Croce s’inserisce nel contesto teologico cristiano ed è soltanto da quella prospettiva che può essere compresa. Lo stesso vale per il concetto di vacuità che non avrebbe senso estrapolare dal contesto filosofico buddhista. Ciononostante, e libero da ogni aspirazione integrativa, ecco qui alcune considerazioni che spero siano utili.

Giovanni della Croce è uno dei più grandi mistici della tradizione cristiana, è noto per la sua profonda esplorazione dell’esperienza spirituale e del cammino di unione verso il divino. Nato nel 1542 in Spagna, ci ha lasciato un’eredità spirituale che ha influenzato profondamente la teologia mistica. Il concetto di nulla, uno degli aspetti centrali del suo pensiero, è esplorato attraverso due opere principali, La salita del Monte Carmelo e La notte oscura.
Nel pensiero di Giovanni della Croce, il nulla rappresenta il totale distacco dalle cose materiali, dai desideri mondani e perfino dalle consolazioni spirituali. Una progressiva spoliazione metodologica che parte dal prendere le distanze dalle illusioni che la mente e i cinque sensi creano nel nostro percepito fino a liberarsi persino dei concetti spirituali stessi, degli strumenti utilizzati e in ultima analisi del cammino, incluso il concetto di Dio. Giovanni della Croce insiste che solo attraverso il nulla l’anima può spogliarsi degli attaccamenti che la legano al mondo e prepararsi per l’incontro con il Divino. Per “mondo” si intende ciò che è materiale ovvero ciò che la nostra mente percepisce come avente un sé. Questo è sorprendentemente affine alla realizzazione della vacuità: tutto è vuoto di esistenza intrinseca perché condizionato da altri fattori. La comprensione della vacuità libera la mente dai tre veleni: attaccamento, avversione e ignoranza, e conduce all’illuminazione.
Per brevità sono costretto a tralasciare un elemento distintivo tra le due filosofie, ovvero il concetto di Anima che Giovanni della Croce considera il veicolo che si muove verso il cammino di unione divina mentre nel Buddhismo è negato come lo è l’unione divina a favore della mente che realizza la realtà ultima delle cose. Invito il lettore a uno scomodo esercizio di equilibrismo concentrandomi unicamente sul cammino e non sulle definizioni filosofiche di chi lo compie e neppure sulla definizione del punto d’arrivo.
Sia il nulla di Giovanni della Croce che la vacuità buddhista implicano un distacco dagli attaccamenti materiali e psicologici. In entrambi i casi, il distacco è un mezzo per raggiungere la comprensione più profonda della realtà. Giovanni della Croce parla del nulla come di un processo di purificazione necessario per l’illuminazione che nel contesto cristiano è l’unione con Dio. Anche nel Buddhismo, la comprensione della vacuità conduce all’illuminazione, ed è fondamentale per purificare la mente dall’ignoranza e dalle illusioni. Sia la vacuità buddhista che il nulla giovanniano presuppongono la trascendenza dell’ego e dell’identità personale. Giovanni della Croce insiste sull’abbandono del sé per trovare Dio, mentre la vacuità buddhista dissolve la nozione di un sé permanente e autonomo.

Il lettore buddhista che approfondisce Giovanni della Croce rimane colpito da due elementi. Da un lato il continuo riferimento al distacco che tanto richiama la liberazione dai tre veleni e dall’illusione della natura intrinseca del sé. Dall’altro non trova alcun riferimento pratico su come applicarsi dettagliatamente e progredire verso queste realizzazioni. Nel testo La salita del Monte Carmelo si descrivono con dovizia di particolari le fasi che l’essere umano deve attraversare senza però far riferimento a un metodo preciso. Chi è familiare con la mistica cristiana riconoscerà questa caratteristica in molti altri testi che fanno riferimento a percorsi, cammini e ascese di ogni genere come nel caso della Scala di Giovanni Climaco, l’itinerario di San Bonaventura, la nube della Non Conoscenza e il cammino di perfezione di Teresa d’Avila. Seppur ritengo che Giovanni della Croce sia tra i più buddhisti dei mistici cristiani almeno nel modo di esporre le proprie idee con chiarezza e metodo, anch’egli come altri mistici cristiani si limita a pochi dettagli pratici su come realizzare quei concetti che così chiaramente descrive.

Una prospettiva che potrebbe rappresentare un complemento all’assenza di pratica dettagliata è il Satipattanasutta noto anche come I quattro fondamenti della consapevolezza. Il testo descrive la pratica Vipassana, strumento fondamentale nel Buddhismo per sviluppare consapevolezza e comprensione della natura impermanente e interdipendente di tutti i fenomeni. Attraverso la meditazione Vipassana il praticante arriva a recidere la radice di ogni attaccamento e la conseguente liberazione dalla sofferenza. In contesto buddhista questa è la realizzazione della vacuità. Dunque se la meditazione Vipassana è funzionale a realizzare che nulla vale il nostro attaccamento poiché vuoto di esistenza intrinseca, allora sarebbe altrettanto funzionale al nulla di Giovanni della Croce cioè al totale distacco dalle cose materiali. In questo senso, il Satipattanasutta, potrebbe essere uno strumento utile nel cammino mistico descritto da Giovanni della Croce e altri mistici.
Il problema è che sia il Satipattanasutta sia molti dei suoi commentari sono scritti con i registri caratteristici della filosofia buddhista, spesso di difficile comprensione per il praticante in generale e in particolare per quello cristiano distante dalla filosofia sui quali insistono questi testi. A mio avviso una valida alternativa è il Manual of Insight di Mahasi Sayadaw, commentario del Satipattanasutta relativamente moderno, pratico e facile da leggere che ben aiuta a strutturare la pratica Vipassana per il praticante che proviene sia dalla prospettiva buddhista sia da quella mistica cristiana.

Torniamo a Giovanni della Croce e al cammino di realizzazione mistica che propone. La pratica di meditazione Vipassana è facilmente integrata anche dal praticante cristiano perché la consapevolezza che si sviluppa fa emergere gli attaccamenti e le avversioni in cui incappa costantemente la nostra mente a livello sempre più sottile e può facilitare il distacco richiesto da Giovanni della Croce ne La salita del Monte Carmelo.
Inotre, durante le fasi di sofferenza e desolazione spirituale (che Giovanni della Croce chiama notte oscura), la pratica di meditazione Vipassana offre un sostegno concreto, aiutando i praticanti a mantenere la calma e l’equilibrio mentale, riconoscere i tranelli della mente smascherare le schiere dell’esercito di Mara. Osservare i fenomeni così come sono, senza giudizio, aiuta a gestire le difficoltà emotive e spirituali del praticante, facilitando il passaggio attraverso la notte oscura con fermezza e serenità. Entrambi i percorsi mirano a una forma di unione o realizzazione ultima. Per San Giovanni della Croce è l’unione mistica con Dio; per Mahasi Sayadaw è l’illuminazione attraverso la realizzazione della vacuità. Inoltre entrambe le pratiche richiedono una forma di attenzione concentrata e una presenza nel qui e ora, che apre la strada a un’esperienza spirituale che trascende l’ego e le illusioni personali per avvicinarsi a una verità più profonda.

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