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In primo piano maggio 2024

“L’esercizio della felicità” di Ciro Conversano e Rebecca Ciacchini

La felicità è più probabilmente uno stato d’animo meno intenso di un’emozione, cultura-dipendente, che dipende dalla relazione con l’altro (che sia individuo o altro-da- sé), e che è imprescindibile da un percorso interiore di compassione e ricerca, da una scelta, e anche da una certa consapevolezza dei propri bisogni.
MSA felicità Conversano Ciacchini
detailf of Runners (1924), Robert Delaunay (French, 1885-1941) artvee.com

Quanto spesso ci viene chiesto se siamo felici? Noi stessi, abbiamo l’abitudine di domandarcelo? E soprattutto, è un sentire comune quello di non riuscire a rispondere “si”, per il 95% delle volte? Beh, noi crediamo di si, poiché come vedremo la felicità non è esattamente quello che sembra.
In questo contributo forniremo una definizione del costrutto, discuteremo su quali siano le sue caratteristiche principali, come e se si può misurare, e infine cercheremo di evidenziare quali aspetti possano considerarsi cruciali per ottenerla.

Iniziamo approfondendo che cosa si intende per felicità.
Per l’enciclopedia Treccani essa è “Lo stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato1”. Un’altra definizione la vuole come “lo stato d’animo (sentimento) positivo di chi ritiene soddisfatti i propri desideri”2. La sua origine latina, “felicitas“, suggerisce un legame con il concetto di fortuna e prosperità, derivante dalla radice “fe-” che significa abbondanza. Notiamo quindi già alcune caratteristiche, che possono iniziare a indirizzarci verso una definizione più completa. Innanzitutto, la felicità sembrerebbe avere un carattere duraturo, meno situazionale e acuto, e sarebbe quindi ascrivibile all’ambito dei sentimenti più che delle emozioni. Inoltre, sembrerebbe legata al riconoscere di aver raggiunto un obiettivo o soddisfatto uno scopo/bisogno personale. Infine, parrebbe legata alla presenza di abbondanza. Possiamo forse immaginare di che cosa?

Secondo l’eudemonismo, dottrina morale che pone la felicità come scopo o fine naturale della vita degli esseri umani, felicità significa disporre di un’abbondanza di beni (materiali) oppure di stati d’animo positivi. Platone la trovò nella ricerca del bello per poi perderla nuovamente, come se fosse un desiderio passeggero; Aristotele, cinquant’anni dopo, credette che la felicità fosse invece il risultato di un comportamento razionale che conduceva alla moderazione. L’edonismo, poco dopo, dirà che felicità significa piacere immediato; i cinici aspireranno all’astinenza dal piacere per raggiungerla, i cirenaici diranno che non è tanto l’astinenza quanto la capacità che abbiamo di controllare il piacere senza esserne schiavi, che la dona. In oriente, un centinaio di anni prima, Siddhartha Gautama (il Buddha) introduceva al mondo la riflessione sulla vera felicità come forma di saggezza, compassione e consapevolezza interiore, da ricercarsi nell’assenza di sofferenza, nella liberazione dalle catene del desiderio, e nel raggiungimento dell’illuminazione, che consentiva di comprendere la vera natura della realtà.

Sono moltissimi i contributi della filosofia e della spiritualità alla definizione della felicità, ma non è questa la sede di approfondire, poiché si rischierebbe di trattare troppo superficialmente il tema. Inoltre, a voler osservare il costrutto tramite un filtro socioculturale, scopriremmo che per la cultura americana essere felici significa successo personale e fare esperienze positive, mentre ad esempio, i giapponesi alla stessa domanda farebbero riferimento alla natura transitoria della felicità ed alle conseguenze sociali del “sentirsi felici” ad esempio, suscitare l’invidia altrui3. Al di fuori del contesto statunitense, alcuni individui manifestano preoccupazione per un eccesso di felicità; tale apprensione può risultare particolarmente marcata nei paesi che promuovono valori di conformità, interdipendenza e autorità gerarchica, nonché nelle comunità non cristiane. Inoltre, l’ambivalenza verso la felicità potrebbe essere più comune in contesti culturali che la vedono come il frutto della buona sorte; in tali tradizioni, esiste la credenza che un momento di felicità possa essere seguito da un evento sfortunato, data l’incostanza della fortuna.

Ciò che ci interessa in questa sede è comprendere come queste correnti di pensiero abbiano plasmato la moderna concezione di felicità. Per farlo, è necessario esaminare anche la definizione fornita dalla scienza psicologica. Per la psicologia, la felicità è un concetto complesso che abbraccia sia le emozioni positive momentanee che un senso di soddisfazione nella vita, di realizzazione personale e di appagamento nelle relazioni sociali. È correlata a una sensazione soggettiva di libertà, a una maggiore fiducia in se stessi e negli altri, e a un atteggiamento ottimista. Questa definizione tiene conto delle teorie sul benessere soggettivo (si vedano gli studi di A. Maslow e Selingman), della teoria dell’autodeterminazione (E. Deci & R. Ryan) e di quella del flusso, che descrive uno stato di completa immersione in un’attività coinvolgente come pilastro per il benessere e la felicità (M. Csíkszentmihályi). La felicità coprirebbe uno sviluppo a trecentosessanta gradi, intellettivo, emotivo, materiale, fisico e psichico dell’individuo. Alcuni comportamentisti (P. Brickman & D.T. Campbell) raccontano che la vita è come un tapis roulant edonico, dove le persone reagiscono alle situazioni piacevoli e spiacevoli per poi tornare ad uno stato di felicità più “centrale”. Sembrerebbe quindi più uno stato duraturo che temporaneo, a conferma della prima ipotesi, e da questi spunti si confermerebbe anche la sua natura relazionale. Sentirsi felici è possibile solo nella relazione con l’altro, che sia un altro individuo o un “altro” da noi, un evento, un pensiero, un bisogno. Ci torna alla mente la definizione di felicità che troviamo nella famosa pellicola di Sean Penn (Into the Wild), dove nonostante tutti gli sforzi del protagonista per dimostrare come la stessa risieda nella relazione dell’uomo con se stesso, alla fine (drammaticamente) risalta come non ci si possa dimenticare dell’inter-azione con gli altri.

Gli studi genetici, le neuroscienze e l’endocrinologia aggiungono informazioni e spunti interessanti alla definizione. Gli studi genetici indicano che tra i fattori endogeni che influenzano la felicità, quelli biologici risultano essere i più significativi nel determinarne la presenza. Studi su gemelli hanno dimostrato che i fattori genetici contribuiscono tra il 35% e il 50%; inoltre sono stati individuati alcuni geni “responsabili”, nella complessità del comportamento e della cognizione ed emozione umana, proprio della sensazione che chiamiamo felicità (5-HTTLPR and MAO-A4). Le neuroscienze, inoltre, ci informano che esistono una gamma di neurotrasmettitori coinvolti nella regolazione dell’umore e del benessere emotivo, tra cui la serotonina, la dopamina e l’ossitocina. Questi neurotrasmettitori esercitano la loro influenza su specifici circuiti cerebrali che svolgono un ruolo fondamentale nella modulazione degli stati emotivi umani. Una delle teorie neurochimiche più influenti sul tono dell’umore positivo è presentata dagli studi di Ashby e colleghi5: i due elementi principali della loro teoria sono che il tono dell’umore positivo è associato (ma non necessariamente causato) a livelli aumentati di dopamina nel cervello. Altri agenti neurochimici associati agli stati emotivi includono la serotonina, così come la noradrenalina, le endorfine e la melatonina. Gli studi cerebrali non hanno fornito conclusioni definitive sulla localizzazione della “felicità”, ma alcune aree sono state identificate come centri di controllo emotivo: queste includono la corteccia prefrontale, l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia cingolata anteriore e l’insula. Infine, gli studi sugli ormoni suggeriscono che alcuni ormoni rilasciati dall’ipofisi e dalle ghiandole surrenali come il cortisolo, l’adrenalina e l’ossitocina possano svolgere un ruolo fondamentale.

In sintesi, finora abbiamo visto che la felicità è più probabilmente uno stato d’animo meno intenso di un’emozione, cultura-dipendente, che dipende dalla relazione con l’altro (che sia individuo o altro-da- se’), e che è imprescindibile da un percorso interiore di compassione e ricerca, da una scelta, e anche da una certa consapevolezza dei propri bisogni. Sappiamo inoltre che vi è una predisposizione genetica e che, alcune sostanze prodotte nel nostro corpo (influenzabili da agenti esterni comportamentali es. attività fisica o farmaci) possono essere cruciali nella ricerca della felicità.

Vediamo adesso quali strumenti sono più diffusi per la misurazione della felicità. Bisogna dire per prima cosa che, così come è stato complesso definire il concetto, altrettanto è osservare i vari metodi di misura. Ad esempio, alcuni autori (pensiamo a C. Antaki e M. Rapley) contestano l’idea di poter misurare un costrutto che per loro è (inter)soggettivo, o squisitamente soggettivo, ovvero che si svolge solo tra il protagonista e altre parti (variabili). Partiamo dal presupposto quindi che ci saranno tanti strumenti quante sono le definizioni di felicità e che ognuno di essi avrà i suoi limiti e i suoi vantaggi. Le misurazioni possono avvenire con due metodiche principali: la prima, tramite l’uso di questionari auto o etero somministrati, la seconda, tramite osservazioni di indici oggettivi in setting controllati6. Per quest’ultima si intende ad esempio, la misurazione delle espressioni facciali legate alla gioia (il sorriso, l’aumento del tono di voce, la risata). Riguardo ai questionari, abbiamo detto che c’è sempre un grado di incertezza legato alle possibili distorsioni e agli artefatti; ad esempio, qualcuno potrebbe essere “felice” e non saperlo, o potrebbe riferire di esserlo ma non esserlo realmente. Nel World Database of Happiness (WDoH)7 è scritto che le misure possono includere un senso di felicità globale, una parte specifica per le componenti affettive e per quelle cognitive e che possono essere orientate all’analisi della felicità in un dato momento fino ad arrivare alla misurazione generale. Gli strumenti più utilizzati sono, tra gli altri, la Subjective Happiness Scale di Lyubomirsky e Lepper (1999), la Goldberg Depression and Anxiety Scale di Goldberg e Williams (1988), la Subjective Well-Being Scale di Diener et al. (1985), la Life Satisfaction Scale di Diener et al. (1985) e l’Oxford Happiness Index di Argyle, Martin e Crossland (1989), che presentano somiglianze e differenze significative. Certamente, sono strumenti un po’ datati. Comunemente, essi si concentrano sulla valutazione del benessere emotivo soggettivo, includendo domande relative alla soddisfazione nella vita, alle emozioni positive e negative e al senso di realizzazione personale. Tuttavia, le differenze emergono nella progettazione specifica e nell’ampiezza di ciascuna scala. Ad esempio, la Subjective Happiness Scale è focalizzata sul confronto della propria felicità rispetto agli altri, mentre la Subjective Well-Being Scale considera vari aspetti del benessere emotivo soggettivo. Inoltre, alcuni strumenti possono essere più brevi e focalizzati su specifiche caratteristiche, mentre altri possono essere più ampi e inclusivi, valutando diversi domini.

A conclusione di questa dissertazione, vediamo adesso quali fattori sembrerebbero influenzare la felicità. Ugo Foscolo a tal proposito parlava del piacere a se stessi (non esattamente facile) e di poter seguire liberamente le proprie aspirazioni, emotive e cognitive8. A parte ciò che possiamo fare noi con noi stessi, anche il sostegno sociale, le relazioni positive e l’appartenenza a una comunità sono fattori che influenzano il benessere soggettivo. Alcuni studi riportano l’essere estroversi come un’aumentata capacità di essere felici, come se una facilità a relazionarsi con gli altri rappresentasse un fattore positivo. Gli stessi studi9 suggeriscono che una maggiore facilità nell’affidarsi agli altri aumenti la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità di problem solving aumentando il benessere. La presenza di relazioni significative, inoltre, e di una rete di supporto sociale è associata a livelli più elevati di felicità così come una buona salute fisica e mentale. Basti pensare agli studi di Veenhoven10, dove è emerso che la felicità non predice la longevità nelle popolazioni già malate, ma che essa è correlata a una maggiore longevità tra le popolazioni sane. Sorprendentemente, l’effetto della felicità sulla longevità nelle popolazioni sane è significativo, paragonabile a livello di impatto ad altri fattori come riuscire a smettere di fumare. Infine, gli studi ci dicono che la percezione di avere un lavoro significativo e gratificante contribuisce al benessere emotivo e che uno stile di vita e abitudini sane (esercizio fisico regolare, dieta equilibrata, buona qualità del sonno e pratica di attività ricreative) possono influenzare positivamente la felicità. Dai risultati di questi studi emerge chiaramente che promuovere la felicità a livello sociale può avere un impatto notevole sulla salute pubblica: questa constatazione sottolinea l’importanza di considerare la felicità non solo come un obiettivo individuale, ma anche come un bene collettivo che può portare a miglioramenti significativi nella qualità della vita e nella salute di tutti.
Il nostro punto di vista su quanto detto si può evincere dal titolo: l’esercizio della felicità per noi significa che non esiste serenità, pace e felicità, senza l’impegno nella quotidianità di dedicarsi a se stessi, agli altri e alla vita con rispetto e compassione, intesa come la tensione al desiderio che tutti possiamo essere liberi, fisicamente e mentalmente, dalla sofferenza. Felicità significa dare il giusto peso alle cose, in un eterno equilibrio (Mēdèn ágān, o Yin e Yang del taoismo) tra cuore e mente-una mente- che pensa ma che dimentica di aver pensato e che lascia andare, come un filo d’erba al vento, facendo scivolare gli eventi della vita, piacevoli e spiacevoli che siano, da una piena consapevolezza più centrale dentro di se’. Ci piace pensare alla felicità come a quel senso di pace e di appagamento che si prova quando si pratica la meditazione della montagna e si diventa la montagna; impassibili ai mutamenti intorno a noi ma appagati da noi stessi e da ciò che abbiamo. Cerchiamo la felicità consapevoli che sia un’arte, e quindi, come tutte le arti, un processo attivo che implica creatività, dedizione e pratica; ricordandoci, con gentilezza, che l’esercizio della felicità è un nostro diritto.

________________________
1 https://www.treccani.it/enciclopedia/felicita/
2 Felicità, in Grande Dizionario di Italiano, Garzanti Linguistica.
3 Per una rassegna più approfondita: Oishi, S., & Gilbert, E. A. (2016). Current and future directions in culture and happiness research. Current Opinion in Psychology, 8, 54-58.
4 Dfarhud, D., Malmir, M., & Khanahmadi, M. (2014). Happiness & health: the biological factors-systematic review article. Iranian journal of public health, 43(11), 1468.
5 Ashby FG, Isen AM, Turken AU (1999). A neuropsychological theory of positive affect and its influence on cognition. Psychol Rev, 106: 529–550.
6 Helm, D. T. (2000). The measurement of happiness. American Journal on Mental Retardation, 105(5), 326-335.
7 Veenhoven, R. (2017). Measures of happiness: Which to choose?. Metrics of subjective well-being: Limits and improvements, 65-84.

What is this World Database of Happiness?


8 [“Quel poco di felicità che si può sperar sulla terra consiste nel piacere a sé stessi; al che stimo indispensabili due cose: l’una, di seguire fedelmente i propri principi; l’altra, di potere liberamente esercitare le facoltà del cuore e dell’intelletto.”] Foscolo, U. (1807). “Dei sepolcri”.
9 Tan, C. S., Low, S. K., & Viapude, G. N. (2018). Extraversion and happiness: The mediating role of social support and hope. PsyCh journal, 7(3), 133-143.
10 Veenhoven, R. (2008). Healthy happiness: Effects of happiness on physical health and the consequences for preventive health care. Journal of happiness studies, 9, 449-469.

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