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Coscienza e realtà interiore

Note per una Scienza delle Pratiche contemplative

Parlando di coscienza i modelli esistenti possono essere ricondotti a due categorie principali: quelli che riconoscono alla Coscienza esistenza intrinseca indipendente, almeno in parte, dal suo substrato fisico e quelli che invece considerano la Coscienza interamente riducibile ai processi elettro-chimico-fisici che hanno luogo nel cervello.
Note per una scienza delle pratiche contemplative - Bruno Neri
detail of Area Broken by Perpendiculars (ca. 1934), Joseph Schillinger (American, 1895 – 1943)

di Bruno Neri

Premessa
L’enigma della Coscienza è forse il mistero più affascinante dell’Universo. Sono molteplici le ipotesi, le convinzioni più o meno radicate, i modelli sulla base dei quali si cerca di dare risposta al più arduo dei problemi (Chalmers, 1995). Volendo schematizzare, tutti possono essere ricondotti a due grandi categorie: quelli che riconoscono alla Coscienza esistenza intrinseca indipendente, almeno in parte, dal suo substrato fisico e quelli che invece considerano la Coscienza interamente riducibile ai processi elettro-chimico-fisici che hanno luogo nel cervello. Mentre i secondi si inquadrano bene nel cosiddetto monismo materialista, i primi conducono ad una visione dualistica della Realtà nella quale il mondo esterno obbedisce alle leggi della Fisica e quello interiore richiede un diverso piano di analisi.

Siamo profondamente immersi in un mondo fatto di scienza e tecnologia e non è facile affrancarsi da una visione strettamente fisicalista della Realtà. Ciononostante, un desiderio più o meno conscio di guardare “oltre” è presente in tutti noi. La fede è la tensione verso l’indicibile e non è un atteggiamento contrario alla ragione: atto di fede è anche quello dello Scienziato che intuisce una nuova Verità “oltre” la soglia del conosciuto e poi, magari, passa il resto della sua vita nel tentativo di connettere solidamente questa sua intuizione a una visione razionalmente strutturata della Realtà. Allo stesso modo tutti noi possiamo intuire l’esistenza di un “oltre” e tentare di costruire quel tipo di connessione nella forma che ci appare più convincente, tenendo aperta una finestra sul trascendente senza rinunciare ad una visione del Mondo basata su un approccio rigorosamente scientifico. Ma non è facile.
Il dilemma tra monismo materialista e dualismo, oppure tra Scienza e Spiritualità se vogliamo ricondurlo a queste due categorie, è oggi più attuale che mai. Negli ultimi anni esso è stato ri-alimentato, da una parte, dalle promesse delle Neuroscienze di “spiegare” la Coscienza, dimostratesi poi premature, dall’altra dal diffondersi in Occidente di nuove forme di spiritualità che si sono rivelate sorprendentemente compatibili con un approccio rigorosamente scientifico. Il percorso alla ricerca della soluzione si snoda fra queste due alternative e passa per la risposta a due domande fondamentali.

1. Prima domanda: “Il Materialismo Scientifico è in grado di abbracciare la totalità della Realtà?”
Il sistema di pensiero dominante nel mondo della Scienza è quello che Alan Wallace (Wallace & Hodel, 2008) definisce Materialismo Scientifico (MS) e poggia su quattro pilastri assurti al rango di verità inconfutabili senza, però, che nessuno le abbia mai dimostrate. Ecco i pilastri del MS:
1) Oggettivismo: l’unica Realtà che ha senso conoscere e indagare con metodo scientifico è quella che esiste al di fuori di noi e può essere osservata, studiata, misurata con metodi “oggettivi”;
2) Realismo Metafisico: la Realtà esterna ha una sua esistenza intrinseca, indipendente dall’Osservatore e può interamente essere da questi conosciuta;
3) Principio di chiusura o esclusione: è esclusa l’esistenza di ogni altro agente non materiale in grado di influire sulla Realtà (sia interiore che esteriore);
4) Riduzionismo: tutti i fenomeni sono analizzabili a diversi livelli di complessità, ogni livello è il risultato di quelli sottostanti e dei suoi costituenti, fino al livello fondamentale della Fisica.

Questa visione è ancora oggi quella ampiamente prevalente nelle scienze della Vita, tra cui le Neuroscienze, per le quali la Coscienza che non ha massa/energia né estensione, è, di conseguenza, priva di esistenza intrinseca, non può essere esposta ai metodi oggettivi di misura e, quindi, non può essere oggetto di Scienza. Essa è il fantasma attraverso il quale ci si manifesta la complessità dei processi neuronali a causa della nostra conoscenza imperfetta. Quando tale conoscenza sarà completa il fantasma svanirà e saremo in grado di ridurre ogni stato mentale ai processi neuronali e poi, attraverso la Biochimica e la Chimica, fino al livello della Fisica classica basata sul determinismo meccanicista.
Le conseguenze di questo ragionamento sono devastanti: in un colpo solo esso fa piazza pulita della volontà, del libero arbitrio, dell’etica ed esclude ogni possibile ipotesi sulla sopravvivenza di qualcosa dopo la morte semplicemente perché questo qualcosa non esiste nemmeno quando siamo vivi: è solo un’illusione. Affermare che la Coscienza è priva di esistenza intrinseca significa dire che essa risulta interamente riducibile ai processi elettro-chimico-fisici che hanno luogo nel cervello. Ridurre una classe di fenomeni ad un’altra, nel nostro caso quella degli stati mentali a quella dei Correlati Neuronali della Coscienza (CNC), significa dimostrare una corrispondenza biunivoca tra i fenomeni delle due classi per cui, dalla conoscenza dei fenomeni di una classe, deriva la conoscenza completa dei fenomeni dell’altra. Una volta dimostrata la riducibilità della Coscienza ai CNC, la Scienza potrà occuparsi di questi, lasciando a filosofi e uomini di fede ogni altra – a questo punto vana – disquisizione su concetti vaghi e inafferrabili. È questa la posizione dominante in ambito neuroscientifico.

La riducibilità di cui sopra è stata data per scontata a priori, sull’onda di quello che potremmo definire un eccesso di ottimismo scientifico, ma non è mai stata dimostrata né è ben chiaro se qualcuno sappia da dove partire per dimostrarla. Uno dei fondamenti di questo malinteso risale all’avvento di macchine cosiddette (nel senso che appaiono, ma non lo sono) intelligenti: i computer. Il malinteso deriva dal seguente falso sillogismo: i) il computer è una macchina in grado di implementare operazioni logiche; ii) la mente umana è in grado di fare la stessa cosa; iii) quindi la mente funziona come un computer, anzi, come il più potente dei computer. Il sillogismo è chiaramente falsato dal fatto che esso assume che le facoltà della Mente/Coscienza siano limitate alle operazioni logiche, ovvero alla implementazione ed esecuzione di algoritmi. Ed è così che da oltre mezzo secolo gli esperti di AI (Artificial Intelligence) tentano di progettare computer in grado di funzionare come la Mente umana e i neuroscienziati si affannano nel tentativo di spiegare il funzionamento del cervello (ovvero, in un un’ottica riduzionista, della Mente) come fosse un computer. Ma, come sostiene Federico Faggin, inventore del microprocessore, padre del personal computer, impegnato per anni sul fronte dell’AI e, in seguito, creatore della Foundation for Consciouseness Studies, la Coscienza possiede peculiarità che la rendono intrinsecamente irriducibile a una macchina, per quanto complessa essa sia (Faggin).

Nonostante gli insuccessi, i tentativi dei Neuroscienziati di spiegare le funzioni più elevate della Mente/Coscienza come processi (software) che hanno luogo all’interno del cervello (hardware) continuano. La macchina/cervello viene erroneamente rappresentata come costituita da blocchi funzionali a ciascuno dei quali è delegata una sotto-funzione, come in un computer (riduzionismo funzionalista) [Epstein 2016]. A puro titolo d’esempio riportiamo nel seguito un passo tratto da un recente libro del premio Nobel Eric Kandel (Kandel, 2018). Si tratta della (presunta) spiegazione in termini di riduzionismo funzionalista di una prerogativa di livello superiore come la gestione di un’emozione. “Sono molte le strutture cerebrali coinvolte nell’emozione, ma quattro di esse sono particolarmente importanti: l’ipotalamo che è l’esecutore dell’emozione; l’amigdala che orchestra l’emozione; lo striato …omissis; la corteccia prefrontale che valuta se una particolare risposta emotiva è appropriata ecc.”. Ebbene: eseguire, orchestrare, valutare sono tutte funzioni cognitive superiori, di fatto assegnate da Kandel a ciascuna delle parti al fine di spiegare come il tutto (il cervello) implementi una funzione che è esattamente dello stesso tipo. Sarebbe come dire: “Il cervello, per pensare, si serve della corteccia che ….pensa”: il problema non è minimamente risolto, esso viene solo spostato innescando un processo di regressione all’infinito. Un tentativo un po’ goffo che ricorda da vicino l’homunculus di seicentesca memoria chiamato in causa (Wikipedia1) per spiegare il meccanismo della visione.

Ma non solo il MS è ben lungi dall’aver ridotto la Coscienza ai CNC: esso rimane letteralmente senza argomenti davanti a fenomeni che la coinvolgono la cui evidenza scientifica è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel seguito ne elenchiamo alcuni, tutti descritti su riviste specialistiche internazionali peer reviewed, alle quali rinviamo per opportuni approfondimenti e verifiche.
1) Correlazione a distanza dell’attività cerebrale in soggetti sottoposti a stimolazione ottica (Grinberg-Zylberbaum et al, 1994; Radin, 2004/1; Wackermann et al., 2003);
2) Esperienze di premorte (Near Death Experience) (Lommel, 2011);
3) Fenomeni di retrocausalità (inversione della sequenza temporale tra causa ed effetto) (Mossbridge, 2011; Radin, 2004/2);
4) Interazione mente/materia (Radin, 2013);
5) Comportamenti coscienti in individui quasi privi di corteccia cerebrale (Feuillet et al, 2007)
e in organismi unicellulari, quindi privi di neuroni e connessioni sinaptiche (Jennings, 1906) .
Alla luce di quanto abbiamo detto, la risposta alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo non può che essere un deciso NO.

2. Seconda domanda: “È possibile una visione unitaria della Realtà nella quale la Coscienza non sia riducibile ai suoi correlati neuronali?”
Una volta preso atto del fatto che la Fisica Classica e il Materialismo Scientifico non sono in grado di abbracciare la fenomenologia della Coscienza, proviamo a vedere come cambiano le cose introducendo i concetti della Meccanica Quantistica (MQ). Essa, infatti, descrive una sorta di Realtà ultima molto diversa da quella convenzionale dalla quale si discosta su alcune questioni di base che cercheremo di riassumere nel seguito. In MQ:
1) la distinzione classica tra soggetto e oggetto perde di significato: ciò che conta è il processo del conoscere. La Coscienza dell’osservatore assume un ruolo primario in quanto la MQ non descrive la Realtà in sé, ma ci dice in che modo la Realtà entra a far parte del nostro universo cognitivo. L’ontologia indietreggia e l’epistemologia avanza mettendo in crisi il Realismo Metafisico. Afferma Werner Heisenberg, uno dei padri della MQ, “Ciò che osserviamo non è la Natura in sé, ma come la Natura risponde ai nostri metodi di osservazione” (Heisenberg, 1959). La stessa distinzione tra particella e onda, tanto cara alla Fisica Classica, svanisce. L’elettrone, ad esempio, non è né l’una né l’altra: esso si manifesta come particella o come onda a seconda delle modalità con cui lo osserviamo/conosciamo (esperimento della doppia fenditura (Wikipedia2));
2) è inerentemente impossibile conoscere in maniera completa non solo l’intera Realtà, ma addirittura il singolo fenomeno (principio di indeterminazione di Heisenberg);
3) l’unica descrizione dei fenomeni possibile è contenuta nella funzione d’onda, soluzione dell’equazione di Schrödinger, ed è di tipo strettamente probabilistico (fine del determinismo);
4) viene abbandonato il principio di località della Fisica classica secondo il quale non è possibile alcuna azione a distanza oltre a quelle mediate dal campo elettromagnetico o gravitazionale che si propagano ad una velocità massima non superiore a quella della luce. L’universo appare, invece, come un tutto connesso nel quale un evento può produrre istantaneamente effetti a distanze anche astronomiche (entanglement) senza la mediazione del campo; svanisce la pretesa del riduzionismo di studiare i fenomeni complessi in termini di costituenti indipendenti;
5) il concetto classico di causa ed effetto diventa evanescente; emergono fenomeni inspiegabili in termini classici in cui, addirittura, l’effetto può precedere la causa (Delayed Choice Quantum Eraser (Wikipedia2)).

La Realtà ultima della MQ appare più vicina a certe evidenze sperimentali che coinvolgono la Coscienza le quali risultano, invece, inspiegabili in termini classici. In particolare, sebbene si sia ben lungi dall’avere risposte definitive, si potrebbero interpretare le correlazioni a distanza (Grinberg-Zylberbaum, 1994; Radin, 2004/1; Wackermann, 2003) come fenomeni di entanglement (non-località della MQ). Si potrebbe spiegare anche la retrocausalità (Radin 2004/2), (Mossbridge, 2011) visto che, per esempio, esiste un notissimo esperimento di MQ (Delayed choise quantum eraser experiment (Wikipedia2)) in cui l’effetto sembra precedere la causa. Quanto meno la MQ offrirebbe un quadro di riferimento in cui tali fenomeni non sono in contraddizione con il sistema assiomatico di base.
Ciononostante, la MQ nella sua attuale formulazione non è sufficiente a dare conto di alcune evidenze come, ad esempio: le esperienze di premorte; l’esistenza di un inconscio collettivo o di specie, ipotizzata per spiegare comportamenti innati; la difficoltà tuttora insuperata dalle Neuroscienze, a stabilire una connessione certa tra gli elementi di memoria e le sue “tracce” nel cervello; l’esistenza di coscienza e memoria in individui quasi privi di materia cerebrale (idrocefali) (Feuillet et al, 2007); i comportamenti apparentemente coscienti di organismi estremamente semplici o addirittura unicellulari, quindi privi di neuroni e sinapsi, dai parameci allo Stentor Raesillii (Jennings, 1906) noti da lungo tempo. Ipotesi ed evidenze sperimentali che indicano l’esistenza di forme di coscienza svincolate dal substrato neuronale o, addirittura, che travalicano i confini dell’individuo.

Per rispondere alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo, bisogna quindi andare “oltre” e abbandonare l’ultimo assioma del Materialismo Scientifico che ha resistito all’avvento della MQ: il principio di chiusura o esclusione. A questo punto si potrà ipotizzare l’esistenza di una entità priva degli attributi di massa/energia ed estensione, ma in grado di agire nel Mondo. Questo vorrebbe dire che l’attuale formulazione della MQ è incompleta, ovvero che nella Realtà agiscono delle “variabili nascoste non locali” che sfuggono alle categorie di massa, estensione ed energia e che non siamo ancora riusciti ad individuare. Sebbene sconvolgente, non sarebbe la prima volta che questo accade nella Fisica: è accaduto quando Newton scoprì la gravità e Maxwell descrisse il campo elettromagnetico e, infine, con l’avvento della MQ. Per altro, del fatto che la MQ non fosse una descrizione completa della Realtà era convinto anche Albert Einstein che ritenne di poterlo dimostrare in un famosissimo lavoro (Einstein, 1935) che diede origine ad una ventennale diatriba con Niels Bohr mai del tutto risolta. Più recentemente Roger Penrose si è spinto oltre ipotizzando per la Coscienza uno spazio di esistenza, non riconducibile ad un processo algoritmico, connesso a fenomeni quantistici all’interno di nanostrutture, i microtubuli, presenti nei neuroni (e non solo) (Hameroff, 2014). Si tratta di ipotesi affascinanti, plausibili, ma lungi dall’essere state dimostrate. Se e quando ciò fosse possibile nascerebbe una nuova forma di monismo che, invece che escludere la Coscienza, la abbraccerebbe riconoscendole un ruolo irriducibile per la comprensione della Realtà. Una forma di monismo allargato, appena delineato nel libro di Enrico Facco “L’enigma della mente”, che l’autore definisce Olomonismo (Facco, 2018).
Possiamo, a questo punto, concludere affermando che la risposta alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo è: SÌ (ma bisogna costruirla).

3. La Scienza delle pratiche contemplative come strumento di indagine della Realtà
Le risposte alle due domande fondamentali costituiscono un punto fermo da cui partire per individuare quale possa essere il ruolo di una Scienza delle pratiche contemplative nella ricomposizione di una visione unitaria della Realtà. Così come, a un certo punto della Storia della Scienza, è stato necessario introdurre il campo gravitazionale e quello elettromagnetico per spiegare alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili, allo stesso modo l’introduzione nell’equazione di Schrödinger di un principio Cognitivo, quello che Faggin chiama C-space (Faggin), potrebbe permettere di costruire una nuova visione unitaria della Realtà. Potrebbe trattarsi dell’“oltre” verso il quale guardare per costruire con rigore scientifico tale visione senza rinunciare al libero arbitrio, all’etica, alla volontà, all’attenzione alla vita interiore, alla Spiritualità. Per proseguire su questa strada occorrono nuovi strumenti. Infatti, una volta accertata la irriducibilità della Coscienza ai suoi correlati neuronali, continuare a studiarla limitandosi a questi ultimi sarebbe come avere la pretesa di esaurire la conoscenza del sole dedicandosi esclusivamente alla misura delle sue dimensioni senza occuparsi della sua energia!

In questa ricerca viene naturale guardare a quelle tradizioni che hanno sempre riconosciuto alla Coscienza una sua esistenza intrinseca e che affondano le loro radici comuni nella storia culturale dell’India del primo millennio a.C. diversificandosi nei secoli successivi. Nel seguito faremo riferimento al Buddhismo, in particolare a quello Tibetano che appare meglio compatibile col metodo scientifico e, grazie anche all’interesse del Dalai Lama, gode di una interazione collaudata con la Scienza Occidentale (Dalai Lama, 1998) e offre un gran numero di testi dedicati (ad esempio (Tashi, 2006)).
Anche nel Buddhismo si riconosce la supremazia dell’esperienza diretta e della verifica sperimentale che non accetta a scatola chiusa nessuna Verità, nemmeno quella rivelata dal Maestro; ci sono gli studiosi della teoria da una parte e, dall’altra, gli sperimentatori, ovvero i praticanti che utilizzano gli strumenti e le tecniche di osservazione più avanzate per mettere alla prova la teoria e completare l’indagine rendendo disponibili i risultati per ulteriori affinamenti della teoria stessa. Tale indagine viene estesa non solo agli stati ordinari di Coscienza (veglia, sogno, sonno profondo) ma anche a quelli non ordinari indotti da specifiche pratiche meditative (per esempio: sogno lucido, livelli superiori di assorbimento meditativo, stato di premorte (tukdam)).

Le pratiche contemplative sono note e praticate in Occidente con l’obiettivo primario e quasi esclusivo di pacificare la Mente e permettere il controllo delle emozioni. Nell’ambito delle culture in cui sono nate e si sono sviluppate, invece, esse costituiscono un insostituibile strumento di analisi della Realtà e vengono anche utilizzate per indurre stati non ordinari di Coscienza che consentono di spostare il punto di osservazione e mettere a fuoco gli aspetti più profondi della Realtà ultima. Nel Buddhismo, infatti, come nella MQ, si riconoscono due livelli di realtà: quella convenzionale percepibile dalla Coscienza ordinaria e quella ultima che può essere intravista attraverso la riflessione e lo studio, ma che è realizzabile, ovvero intimamente conoscibile, solo in uno stato privilegiato che possiamo definire di illuminazione (Tashi, 2006 Vol.4). Mi limito qui a citare un solo esempio significativo dell’induzione volontaria di uno stato non ordinario di Coscienza che permette di mettere a fuoco una questione cruciale: quella del rapporto Mente-Corpo al momento della morte. Esistono nel Buddhismo Tibetano alcune forme esoteriche di meditazione (Dzogchen, Dzogrin, Mahāmudrā) che vengono tramandate solo per via orale da maestro a discepolo nei collegi tantrici e che consistono nel controllo del processo di separazione della Coscienza dal Corpo fino all’interruzione di tutti i canali percettivi. Si genera in tal modo uno stato non ordinario di Coscienza che nella tradizione tantrica è ritenuto la replica più fedele possibile di uno stato di pre-morte. Il raggiungimento di questo stato è testimoniato all’esterno da una riduzione del metabolismo: ad esempio la frequenza respiratoria può abbassarsi fino a un atto respiratorio osservabile ogni 10 minuti. Quando uno di questi meditatori si sente prossimo alla morte, inizia volontariamente per l’ultima volta questa sua pratica meditativa dalla quale non torna più indietro. Ma, anche quando il suo cuore cessa di battere, si ritiene che la Coscienza non abbia ancora completato il processo di distacco dal corpo, processo che può durare parecchie ore o giorni. In questo periodo, quello che per noi è ormai un cadavere, continua la sua ultima meditazione preparandosi ad una nuova reincarnazione con l’obiettivo di tornare nel Mondo per aiutare gli esseri senzienti a sfuggire dalla sofferenza. Non possiamo sapere, ovviamente, cosa ci sia di vero in questa ipotesi, se non che questa ultima meditazione, tukdam in Tibetano, si accompagna spesso ad un fenomeno assolutamente fuori dall’ordinario: per tutto il tukdam, che può durare anche un paio di settimane, il defunto non mostra alcun segno di quelli che sono i ben noti processi di degrado e decomposizione, come se una sorta di spirito vitale lo pervadesse ancora, conservando, talvolta, un colorito quasi roseo. Il fenomeno è stato registrato anche sotto controllo medico, per esempio nel caso di Geshe Ciampa Gyatso, abate dell’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia (PI) con un tukdam di 7 giorni. L’autore è stato testimone di un caso analogo durante un soggiorno nel monastero Tibetano di Sera-Jey, in India, nel 2019.
Possiamo quindi concludere questa nostra riflessione affermando che non solo una Scienza delle pratiche contemplative è possibile e compatibile con la più recente ed efficace rappresentazione della Realtà di cui disponiamo, quella della MQ, ma che essa è addirittura necessaria per tentare di illuminare l’altra faccia della Realtà intrinsecamente impenetrabile agli strumenti oggettivi dell’analisi scientifica.

4. Conclusioni
Abbiamo delineato nei paragrafi precedenti un percorso che ci ha condotto a intravedere una terza via tra il monismo materialista e il dualismo, via che altri hanno individuato in una nuova forma di monismo allargato assegnandole anche un nome: Olomonismo. L’obiettivo è quello di costruire una visione unitaria in grado di abbracciare la Realtà fenomenica esterna insieme a quella interiore e riconoscendo alla Coscienza il ruolo di sostanza non riducibile ad altre. Per percorrere questa via non bastano gli strumenti messi a punto dagli scienziati: occorrono strumenti in grado di scandagliare l’altra faccia della medaglia e conferire uguale rigore scientifico all’analisi dell’esperienza in prima persona. Si delinea così un ruolo di primo piano per una nuova scienza delle pratiche contemplative intese non solo come rimedio per pacificare la Mente e controllare le emozioni negative, bensì come strumento insostituibile di analisi dell’esperienza in prima persona in grado di fare luce sull’affascinante enigma della Coscienza.

Ringraziamenti: L’Autore è molto grato ai Proff. Giuseppina Campisi e Paolo Neri per la rilettura critica del manoscritto e i preziosi suggerimenti.

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